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Immagine del redattoreRedazione

Ma io cosa ci faccio qui, in gara?


Non è difficile da raccontare la prima gara che fai (e qui il verbo fare non ha validi sinonimi, perché una gara è proprio “fare”, un lavoro artigianale che ti attraversa ogni fibra di cervello e carne).

Non è difficile perché il primo race ti inietta direttamente in vena una quantità di adrenalina che potresti scrivere un romanzo intero disteso sul prato alla fine.

Ma non volendo annoiare e puntando sull’essenziale, provo a comporre il mio podio così.

Al primo posto metto la potente percezione fisica di essere parte di una squadra.

Dicono le inchieste di sociologi e analisti che il grande male che avanza oggi è quello della “loneliness”, la solitudine. Staremmo diventando nelle nostre città come tante piccole sfere di mercurio che si sfiorano, ma non entrano mai in relazione, restano isolate.

Ma invece no: l’esperienza di una squadra di “matti” che ti invitano, ti dicono che ce la puoi fare, tifano per te e ti trascinano a sfidare innanzi tutto te stessa è il contrario delle particelle di mercurio...


Massa magra vs massa grassa

E mi dispiace per le altre discipline, ma il nordic walking ha questo tratto nel suo DNA: il gusto viene dal camminare con gli altri, che spronano e per altro ti controllano pure la tecnica («Tira giù quella spalla, spingi il braccio, non abbassare la fronte...»).

Fare parte di una squadra non è teoria, è appunto esperienza autentica che scegli e passa dal corpo: tu segui, ti metti dietro a una compagna e vai, e senza accorgerti anche tu a un certo punto diventi una da seguire per altri. Ha una sua proprietà transitiva, il nordic, una specie di contagio di passione. Scopri che tu hai bisogno allo stesso tempo sia di qualcuno da seguire che di qualcuno che ti segua. È una metafora dell’avventura che è la vita quotidiana. Ma se te la spiega un professore abilissimo, non la capisci come quando afferri i bastoncini e ti butti nella mischia.

Al secondo posto sul podio: cantare "Fratelli d’Italia" con addosso quella certa agitazione che viene dal non sapere assolutamente cosa succederà da lì a due minuti. Agitazione mescolata alla eterna e insuperata domanda di Mark Twain: «Ma io cosa ci faccio qui?». Comunica orgoglio, apertura e pure una sobria severità, quell’inno. Canti e focalizzi che tu con la tua squadra fai parte di qualcosa di più grande, “pronti alla morte!”.

Al terzo posto: stare a sentire quella voce dentro che ti dice determinata «Vai vai vai». Non è urlata, solo cerca di essere più forte dell’altra voce intima che, invece, realizza: «Boia ma se sono stanca morta così al primo giro come ci arrivo all’ultimo?».

Ecco il podio composto. Manca la colonna sonora, scelgo “Hopeless Wanderer” (di Mumford and Sons), in particolare questo passaggio:

“And I will remember the words that you said (quando corri in gara ti vengono in mente tutte le raccomandazioni del coach!)

But I am sure we could see a new start (puoi sempre riprovarci!)

So when your hopes on fire

But you know your desire (passione per la vita e l’aria)

Don't hold a glass over the flame

Don't let your heart grow cold

I will call you by name

I will share your road”.

Soprattutto il finale: “Condividerò con te la tua strada”.

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